Francesco Marilungo è un coreografo e danzatore che Danae segue dagli inizi del suo percorso. Negli anni, lavora come performer per vari artisti tra cui Enzo Cosimi, Antonio Marras, Jonathan Burrows/Matteo Fargion e Alessandro Sciarroni e avvia parallelamente un proprio percorso autoriale. Vincitore del Premio Prospettiva Danza Teatro 2020 con lo spettacolo Party Girl presentato a Danae nello stesso anno, per questo nuovo lavoro Marilungo si è immerso in una lunga ricerca sul pianto funebre.
Il lutto ha perso la dimensione comunitaria per diventare una condizione individuale. Eppure, si vive costantemente la morte di qualcuno o di qualcosa, le perdite sono talmente vicine, numerose e varie da rendere il lutto una condizione esistenziale, quasi un senso di malinconia diffuso che per quanto presente non si riesce ad elaborare. L’unica reazione possibile rimane il pianto. E allora si piange un pianto immotivato, come se il lutto fosse uno stato inevitabile dell’esistenza. Così, apparentemente senza motivo, piangono le cinque performer di Stuporosa un pianto ora trattenuto, ora soffocato, ora facendosi musica o canto. Sono le figure di pathos, le pathosformeln di cui parla il grande antropologo Ernesto De Martino in Morte e Pianto Rituale. Esse cercano di recuperare una ritualità, di instaurare nuove forme di mutuo soccorso, sussurrando antiche formule magiche, rievocando danze tradizionali, cantando una ninna nanna salentina.
Il lavoro si avvale di un quartetto eccezionale di danzatrici Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis, Francesca Linnea Ugolini assieme alla musicista e performer Vera di Lecce che accompagna il lavoro con musica dal vivo.
“Trasmettono tenerezza e a volte anche paura quelle creature, mentre danzano oggi, immobilizzandosi come vorticando, in preda alla più totale possessione. Dà quasi i brividi quel frugare attraverso il movimento dentro di sé e dentro di noi spettatori. Stuporose loro, stupiti noi, tra quel frugare tra cuore e memorie.”
Gianfranco Capitta, Stuporosa, vorticosa trance di un rituale senza tempo, il manifesto
“A guardarle da lontano, non perché siano lontane ma perché l’inizio di ogni spettacolo comporta sempre una nuova messa a fuoco – l’ingresso in un mondo che è e non è questo – le cinque danzatrici di Stuporosa […] sembrano uscite da una scena ottocentesca …”
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“Se una lingua risuonerà in questo precipizio di anacronismi che è Stuporosa […] non sarà né l’inglese né l’italiano, ma una lingua indecifrabile, come lo sono le lingue sacre o liturgiche, che non si parla, ma si canta, come il griko delle nenie salentine intonate da Vera Di Lecce, officiante di tutto ciò che sulla scena è melodia e suono, o si frantuma come un’ostia nei sospiri affannosi, nei fruscii delle vesti, nei rumori dell’elettronica, in una drammaturgia di gesti volatili che alterna il raptus all’ordine, la figurazione alla sparizione, visitando i corpi con il tocco tetanico ed estenuante dell’immemoriale.
Attilio Scarpellini, Stuporosa, l’epifania del pianto, Doppiozero